martedì 13 settembre 2016

Departures



Ho rivisto il film in DVD l'altro giorno, con ritrovata sorpresa e commozione.
Departures affronta il tema della morte e del lutto. Un tema spinoso, che può creare angoscia e rifiuto, specialmente per gli umani che vivono in Occidente. Non a caso, forse, il film è giapponese!

Eppure, la morte fa parte della vita; non è sbagliato imparare a farne conoscenza. Questa considerazione è probabilmente banale, ma non è banale la necessità che esprime. Altrimenti, la morte non susciterebbe orrore e terrore, né quelli che lavorano nelle sue vicinanze subirebbero uno stigma sociale, portatore di rifiuto e vergogna.  Chi ha voglia di guardare il film fino alla fine, invece, scoprirà che queste persone - almeno in una piccola cittadina giapponese, e almeno i personaggi della storia - sono custodi di pietà e difensori di dignità. 

Il film ha un bel ritmo, ha umorismo; in più, è sempre presente lo sguardo partecipe verso gli animali che vivono intorno a noi, nelle nostre città, nei luoghi rimasti liberi dalla presenza umana, che confinano con le città. Gli animali appaiono a sorpresa, quando le anatre spiccano il volo o quando i salmoni risalgono il fiume. Appaiono anche nei piatti delle persone, quando diventano cibo. C'è un polpo, ancora vivo in cucina, che Daigo (così si chiama il protagonista) ributta in mare. C'è un pollo, il cui cadavere viene portato intero in tavola, in una cesta. Quando Daigo lo vede (reduce dal suo primo incontro con un corpo morto umano, una anziana donna morta da giorni in solitudine), ha conati di vomito, si alza dalla tavola, non riesce a mangiarlo: guarda i suoi occhi chiusi, il capo piegato. Dove gli altri vedono cibo, lui, almeno per questa volta, vede un corpo che una volta era vivo, un individuo che non voleva morire. Quasi tutto il cibo che i personaggi del film mangiano, "apparteneva a un cadavere", come dice a un certo momento il personaggio di Ikuei Sasaki, il principale di Daigo. "Gli esseri vivi mangiano gli esseri morti per vivere", dice ancora. La sua morale termina così:"Se vuoi vivere, devi mangiare. E se devi mangiare, allora mangia bene". Derrida, che cosa direbbe?  Sasaki parte dalla eterotrofia, che permea tutto il vivente, per arrivare alla gastronomia, il cibo-come-cultura: spesso, un alibi per giustificare pratiche eticamente non giustificabili, né più accettabili. La pietà che i due tanatoesteti riservano agli umani, non si estende agli animali, che vengono anzi ingurgitati con voracità, in varie occasioni. Vedi, per esempio, la scena del Natale, che per altro è ricchissima anche di altri temi che si intrecciano in un tutto armonico e piacevole da vedere. Solo le piante, dice, fanno eccezione. Sono autotrofe, si nutrono di sostanze estratte dalla terra o dall'acqua, traggono energia dalla luce solare. Anche le piante, però, alla lunga, si nutrono di esseri morti, anche se tanto tempo prima, ormai disciolti nel terreno.
Departures non è film animalista, non si occupa di etica o di rapporti tra umani e altranimali. Il suo racconto si focalizza su altre cose, anche se gli animali fanno e hanno fatto la loro comparsa. Quello che è interessante, però, è che proprio il focus del film - il lutto, la pietà, il tempo del pianto, del ricordo - può (e secondo me, deve) riguardare anche gli altri animali; e la salma di quel pollo, adagiata intera nella cesta sulla tavola, è lì per avvertirci di questa possibilità.

"Dare a un corpo divenuto freddo, una bellezza che dura per sempre, con calma, con precisione, ma soprattutto con tanta amorevolezza. Pur nella tristezza dell'ultimo addio, quanto viene eseguito per preparare il defunto, immersi nel silenzio pieno di pace, mi appare meraviglioso" , pensa Daigo, a un certo punto.
Va detto che il "per sempre" a cui Daigo si riferisce è assai breve: dura finché il corpo nella bara non vengono bruciati, nel forno di cremazione. Ma si potrebbe pensare che ci troviamo ad avere a che fare con un "per sempre" emotivo, soggettivo, dei e per i congiunti ancora in vita. Qualsiasi eternità immaginata dagli umani, poi, è minuscola, se paragonata alla eternità universale. "Chi muore giace, chi vive si dà pace".

Una cosa che mi ha colpito, che non credo possa mai avvenire in Occidente: la preparazione del defunto, la vestizione, avviene alla presenza e alla vista dei parenti. Pur con delle precauzioni rituali e legate a una certa forma di pudore, per cui del morto non si vede mai il corpo nudo, a parte il viso, le mani e i piedi. Il resto del corpo rimane sempre coperto, via via, da vari tipi di stoffe o indumenti, fino all'abito finale, definitivo. Il che rende l'intera cerimonia assai complicata, e piuttosto lunga, il rito del Nokanshi.  Anche il 'tanatoesteta', cioè chi esegue il rito, compie tutto usando solo il tatto, procedendo lungo una memoria sensoriale tattile che acquisisce negli anni, percorrendo centinaia di membra e di corpi, di epidermidi e di articolazioni.

Il risultato dei suoi gesti, minuziosi, lenti, pazienti, distaccati, trasparenti e allo stesso tempo amorevoli, sconcertano chi li osserva. Commuovono: facilitano lo scioglimento di ogni freno, le lacrime iniziano a sgorgare , facendo tracimare lungo le guance dei vivi, i ricordi, i rimorsi, l'affetto provato e la gratitudine per chi ha causato questo, cioè il cerimoniere tanatoesteta, che ha reso possibile la catarsi.
Una combinazione, credo, tutta giapponese: il nokanshi, come ikebana, vive di minuziosi, delicati dettagli, che ricompongono una realtà nuova, più ampia e partecipe, che facilmente libera le emozioni più profonde, ce le rende consapevoli.

Alla fine, Daigo prova su se stesso l'effetto catartico del rito: tocca a lui ricomporre il corpo del padre, morto a settanta anni, dopo una vita da pescatore (e tutta la sua vita è racchiusa in una scatola di cartone). Non lo ricordava, si accorge che non lo avrebbe riconosciuto in giro per strada; ma quando, piano piano, si prende cura del corpo, con gesti che non possono non avere in sé anche almeno un sentore di cura e di affetto (stringere le mani, accarezzare, pettinare...), i ricordi ritornano, il viso paterno sfocato riemerge, e ha una dolcezza sconvolgente, un sorriso di occhi che dice tutto quello che non riesce a uscire dalla bocca.
Alla fine, anche Daigo piange. Il sasso che lui aveva dato da bambino a suo padre, lo ritrova stretto nel pugno irrigidito del corpo paterno. Un sasso che concentra una vita intera e che lui dona al figlio in grembo a sua moglie, la giovane Mika Kobayashi,  con i suoi trasparenti limpidi sorrisi diffusi in tutto il suo corpo.

Alla fine, il film ci lascia con leggerezza, uno spiraglio sul futuro di questi giovani che abbiamo incontrato in questo momento della loro vita.  Dal lutto, hanno trovato nuova forza: dal tempo preso per poter piangere, per permettere ai ricordi di ritrovare un senso e di riannodarsi al presente. Un tempo individuale, la cui lunghezza è personalissima e soggettiva: ciascuno lo vive con tappe sue personali.  Proprio perché è il tempo per prendere congedo da qualcuno che abbiamo amato e che ci ha amato.

Questo è tanto più vero, intanto, con i compagni non umani che fanno la loro vita accompagnandoci per un po' nella nostra. 
Altre considerazioni sociali, politiche, si possono fare e sono state fatte sul lutto dovuto agli animali, individui o specie, selvatici o sinantropi, oppure addomesticati o soggiogati: sono argomenti interessanti e spero di poterne parlare, ennesima promessa promemoria del e per il blog - e per chi ha voglia di leggerlo, se c'è qualcuno con voglie simili.
Che siano - questi altranimali - con noi per libera scelta, per casualità, per necessità, non mancano mai di segnarci profondissimamente. Il dolore per la loro dipartita spesso è più cocente che per la morte di compagni umani. Non perché degli umani ci importi di meno; ma perché - io penso - i compagni altranimali si connettono istantaneamente e direttamente alla nostra consapevolezza autentica. La mettono a nudo, magari anche a noi stessi. Perciò, il rapporto è così intenso e profondo, così privo di finzioni; così tutto da vivere e giocare sul piano della sensazione, con coraggio e senza esitazioni. La voglia fisica e mentale insieme, di gioco, di comunanza, lo scambio di emozioni che informano vite intere, sono quello che possiamo ritrovare, stando insieme a loro.  Per scoprire che siamo molto più animali di quel che ci illudiamo di (non)essere. Il che, sarebbe, a parer mio, un risultato da augurarsi.

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